In concomitanza con la riapertura delle scuole molti si sono interrogati su che cosa si debba fare nel caso in cui i figli si ammalino. A questo proposito, sono state tracciate linee guida, circolari e patti di corresponsabilità tra le famiglie e la scuola con l’intento di chiarire, il più possibile, l’iter da seguire in caso di sintomi, malattia o positività.
Ripercorriamoli insieme:
A partire da queste indicazioni, molte famiglie si sono domandate come poter fare a gestire lavoro e malattia dei figli, dai sintomi ai casi più gravi.
A queste domande il Governo ha provato a dare risposte e a proporre possibili soluzioni. Tra queste, l’esteso diritto allo smart working per i genitori con figli under 14 a casa (o con figli disabili) anche dopo il 14 settembre o, in alternativa, nuovi congedi parentali.
Ma se ad ammalarsi non sono i figli dei dipendenti ma, ad esempio, i figli dei commercianti?
La voce dei commercianti
Noi dello Studio Pieri, da sempre pronti ad ascoltare lavoratori e titolari di impresa, abbiamo deciso di dare voce, con l’articolo di questa settimana, ai genitori-commercianti.
Di seguito, riporteremo non solo alcune testimonianze dirette, ma anche tutti i timori e i dubbi che stanno affliggendo questa particolare categoria di lavoratori.
Caterina, mamma di Greta (10 anni), proprietaria di un’erboristeria: “La vigilia del primo giorno di scuola Greta aveva la tosse. Da un punto di vista sanitario, ero tranquilla perché sapevo cosa aveva generato la congestione orale: l’aria condizionata troppo forte del centro commerciale dove facciamo la spesa settimanale. Purtroppo, però, dopo aver letto e riletto il patto di corresponsabilità emanato dall’istituto scolastico, ho deciso di tenere la bambina a casa. O, meglio, mi sono trovata costretta a portarla a lavoro con me, non essendo presente febbre. Stavolta è andata bene. Ma sinceramente non so come potrò fare nel caso in cui debba presentarsi una temperatura superiore ai 37,5 gradi e sia necessario il tampone. Alcune mamme dicono che i tempi di attesa per avere i risultati possano essere anche di 15 giorni. Sarei costretta a tenere il punto vendita chiuso, temo. Ma, il timore più grande, è legato a tutti i possibili giorni di scuola che, potenzialmente, mia figlia potrebbe perdere. Ho paura che questa misura di sicurezza possa essere poco compatibile con il diritto allo studio dei bambini e dei ragazzi”.
Dario e Giulia, genitori di Samira (6 anni), proprietari di un’enoteca: “Purtroppo, per noi, non esiste lavoro smart. L’unica soluzione possibile per poter andare avanti è aprire bottega, possibilmente 7 giorni su 7. Fino a questo momento, spesso, ci siamo portati la bambina a lavoro con noi, una volta terminato il bonus baby sitting. Da quando è iniziata la scuola, sia io che mia moglie, teniamo sempre il cellulare dove prende maggiormente e preghiamo che non suoni: il timore che le maestre ci possano chiamare per dirci che nostra figlia ha qualche sintomo e che quindi deve essere allontanata dalla scuola non ci fa dormire la notte. Soprattutto perché il nostro pediatra non ci compilerebbe alcun certificato di guarigione senza aver sottoposto la bambina al tampone”.
Ilaria, mamma di Thiago (5 anni), proprietaria di un negozio di ceramiche artistiche: “Quando dico che il coronavirus è stata la rovina per la mia attività commerciale, non sto assolutamente esagerando: la chiusura durante la quarantena prima e la mancanza di turismo successiva già mi avevano fortemente penalizzata. Il colpo finale è arrivata con le nuove direttive scolastiche relative alla sicurezza: i bambini non possono essere condotti a scuola con tosse e raffreddore. Purtroppo, mio figlio Thiago, soffre di rinite allergica cronica o, in altre parole, è raffreddato tutto l’anno. Se mi ostinassi a mandarlo a scuola, praticamente, dovrei fargli un tampone dopo l’altro e, stando a quanto mi hanno detto, neanche me li passerebbero così tanti tamponi. Dovrei pagarli: intorno ai 70,00 euro l’uno. Così ho deciso di fargli saltare l’ultimo anno di asilo, di tenere la bottega chiusa e di provare a vendere online”.
Ludovica e Jacopo, genitori di una bambina (2 anni), proprietari di una gioielleria: “Nostra figlia è risultata positiva al tampone. A seguito di questo fatto, ci siamo ritrovati tutti in quarantena. Non solo noi, ma anche le rispettive famiglie degli altri sette bambini, oltre alle tre educatrici. Ci siamo ritrovati in balìa degli eventi, senza sapere esattamente cosa fare e ritrovandoci a che fare con tutta una serie di persone che ha preferito lavarsene le mani. Ci siamo trovati costretti a chiudere momentaneamente (e chissà per quanto!) la nostra attività. Siamo a casa con la bambina che non presenta sintomi alcuni. Abbiamo richiesto un altro tampone e ci siamo sentiti negare la richiesta. Così abbiamo deciso di procedere privatamente e, nel caso di un falso positivo, penso che potremmo davvero arrabbiarci molto. Noi, insieme alle altre 20 persone circa che si sono trovate costrette a casa, senza alcun sostegno!”.
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